Mark Tobey e la luce filante

Un mostra intima ed elegante, dedicata ad un artista americano forse ancora sottovalutato e non del tutto riconosciuto, accostato alla Scuola di New York e all’espressionismo astratto ma con un percorso e dei risultati artistici molto diversi e personali, che lo identificano solo in parte con l’arte americana dell’epoca. Mark Tobey. Luce filante, nuova proposta della Collezione Peggy Guggenheim, è la più ricca retrospettiva dedicata a questo artista negli ultimi vent’anni in Europa. Sede ideale quella veneziana visto che, proprio a Venezia, Mark Tobey (1890-1976) partecipò nel 1958 alla Biennale d’Arte dove gli fu assegnato il Premio del Comune di Venezia. Fu quello il periodo dei suoi continui spostamenti, da vero cittadino del mondo come egli si considerava, prima a Parigi, poi a Basilea (dove avrà uno studio), tante mostre internazionali fra cui appunto l’importante appuntamento veneziano.

La nuova mostra vuole indagare l’opera di Tobey in tutta la sua evoluzione artistica, dalle prime esperienze di ritrattista negli anni Venti, alla grande folgorazione della cultura orientale che segnerà in modo determinante le opere di questo artista curioso, grande viaggiatore, affascinato dall’arte asiatica che tanta parte avrà nella sua produzione. Il risultato sarà una poetica integrazione tra la cultura figurativa orientale e quella occidentale, che impedisce di inquadrare Mark Tobey nella sola Scuola americana nonostante sia stato associato spesso, dalla critica, all’espressionismo astratto. Accostamento che lui non gradiva, perché non condivideva le caratteristiche di nazionalismo culturale tipiche di quella corrente.

I 66 dipinti di Mark Tobey in mostra alla Guggenheim raccontano una storia diversa, quella di un artista vicino alla Scuola di New York ma solo marginalmente integrato con quel gruppo. Le sue opere sono più introspettive, intime, spirituali. Ai lavori di grande scala e alle dimensioni monumentali Tobey contrappone la sua scrittura bianca (“Il tratto – spiegava l’artista – prevale sulla massa, ma io provo a compenetrarlo con un’esistenza spaziale”), mondi microscopici basati sull’osservazione della natura, della realtà, griglie di linee e di luci che a volte ricordano i paesaggi metropolitani delle grandi città americane. Solo alla fine della sua parabola artistica le opere si dilateranno, mantenendo però una forte dimensione spirituale in un intreccio di segni, luci e colori che, seppur dilatati, rimandano comunque alla caratteristica eleganza della calligrafia orientale.

La mostra, curata da Debra Bricker Balken, resterà aperta fino al 10 settembre. E’ organizzata dalla Addison Gallery of American Art, Phillis Academy, Andover, Massachusetts, dove – dopo Venezia – si sposterà dal 4 novembre fino all’11 marzo 2018.

Per saperne di più:

http://www.guggenheim-venice.it

Pubblicato da Cristina Campolonghi

Cristina Campolonghi, laureata in Lettere, giornalista professionista prima al quotidiano Il Gazzettino di Venezia poi alla redazione veneta della Rai. Collabora con riviste, siti web, uffici stampa. Cronista attenta ai diversi aspetti della sua città e della sua regione: cultura, società, costume, turismo, ambiente

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